Una delle cose che mi hanno sempre divertito è infilare parole l'una nell'altra, accumularle l'una sull'altra, e poi vederle colare come una massa materica. Mostrare nell'esito melmoso e confuso dell'enunciazione, della voce echeggiante, il limite della referenza.
Non che lo sapessi, all'inizio. Come molti, come quasi tutti, i modi-di-fare ed i riflessi condizionati sono arrivati molto prima di quell'accenno di autocomprensione che l'autodiagnosi ossessiva potesse offrirmi. Ed in effetti me la cavavo meglio, prima di saperlo. (Pensavo di essere, ed ero sul punto.)
Scambiavo il dentro per il fuori, il sopra per l'intorno e pensavo di cercare l'illuminazione mentre dimostravo l'inutilità del pensiero-oltre-il-pensiero.
Nel farlo, mi è capitato di spargere una serie di tracce. Pezzi e Brandelli.
Ora, tuttavia, con la solidità semiraggiunta e la plasticità cerebrale ai minimi storici, mi sembra finalmente venuto il momento di dire a qualcuno che non conoscerò mai:
Buongiorno fratellino. Come ti senti oggi? Il mondo lacerato e confuso, pieno di piani e contropiani, sopravvivenze conflittuali ed obsolescenze putride ti manda a male? Oppure è il Vuoto quello che vedo dietro i tuoi occhi limpidi?
Quello che sto cercando di dire, è che tutta la questione dello sperimentare la gran parte delle volte consiste nello strapparsi carne e sangue al confronto, evitare l'evitabile. Costruire ad arte, attraverso l'adeguata manipolazione di simboli, una posizione imprendibile, un luogo del non-spirito, una stazione immobile, tale che da fuori si possa solo sbalordire o inoridire, e d'un colpo negare ogni risposta umana (la compassione, la solidarietà, l'indifferenza).
Ciò che ho imparato, è che dovrei disporre di soggetti preventivamente ipnotizzati per poter giocare i giochi che mi interessano. E per avere qualcosa di simile dovrei poter dire ciò che non ho mai detto:
Rilassati, chiudi gli occhi.
E' tutto a posto.